“ShellShock” è il termine utilizzato dagli inglesi, per la prima volta nel 1915, per indicare i traumi neuropsichiatrici che colpirono frequentemente i soldati impiegati al fronte.
Lucio Fabi sulla “follia al fronte”:
La trincea impose prove durissime, che non tutti riuscivano a superare. Il termine «matto di guerra» circolò e si diffuse per la prima volta nella Grande Guerra, per designare le centinaia di migliaia di militari colpiti da neuropatie prodotte direttamente dal conflitto, che affollarono per svariati decenni i manicomi di tutto il mondo.
L’esercito italiano aveva creato dei veri e propri presidi psichiatrici nelle retrovie del fronte, a cui spettava riconoscere la malattia mentale dei soldati che asserivano di esserne affetti. Non sempre i medici militari riconoscevano le isterie e le nevropatie prodotte dalla paura del bombardamento e del combattimento, e mandavano i soldati colpiti da questi mali ai tribunali militari, che comminavano diversi anni di carcere per “simulazione” o “renitenza”. I militari riconosciuti malati di mente venivano ricoverati nei diversi manicomi italiani, qui a Trieste abbiamo l’esempio dell’Ospedale Psichiatrico Provinciale di San Giovanni, dove venivano curati con docce fredde, scariche elettriche, ma soprattutto con la detenzione e la segregazione. In questi casi, la fuga dalla guerra era anche una fuga dalla vita e dalla famiglia.
Il capitano medico Lorenzo Gualino, direttore dell’ospedale psichiatrico del 39° ospedale da campo, nel 1918 riporta il caso di un soldato colto da confusione mentale allucinatoria mentre era di vedetta
Anche il tono energico delle domande rivoltegli non lo scuote dal suo sogno ed egli tratto tratto scatta a mettersi in agguato con dei sussurrati chi va là, mentre continua per ore intere a scrutare oltre le sbarre del letto riportando con un lapis su dei brani di carta le sue pseudo osservazioni di trincee, di reticolati, di camminamenti… Con un ritaglio di carta s’è acconciata una feritoia con relativa chiudenda e vi balza a porvi l’orecchio o ad affacciarvi l’occhio, poi richiude lentamente o resta a ricopiare qualche ipotetico panorama, sempre avendo la faccia atteggiata alla mimica dell’attesa, dell’agguato, del terrore.